Una recente sentenza della Corte di Appello di Lecce si interessa del delitto di omissione di atti di ufficio con particolare riferimento agli obblighi di sanità veterinaria previsti dal D.P.R. m. 437/2000 in tema di identificazione e la registrazione dei bovini.
In primo grado un veterinario in servizio presso l’ASL di Taranto si vedeva dichiarato colpevole del reato previsto e punito dall’art. 328 c.p., “per avere, quale veterinario presso l’Azienda U.S.L. di Taranto, con competenza in materia di sanità animale, rifiutato indebitamente un atto del suo ufficio che per ragioni di igiene e sanità doveva essere compiuto senza ritardo”: in particolare, perché, appreso della complessiva assenza di sette bovini dall’allevamento di proprietà di una azienda agricola, in occasione dei due controlli diagnostici eseguiti dal suo ufficio, ometteva “di sanzionare i responsabili dell’allevamento stesso ai sensi del D.Lgs. n. 58 del 2004 art. 3 co. 7 – 8 – 9 e 10, rifiutando altresì indebitamente di informare l’A.G. ed il Corpo Forestale dello Stato che la denuncia di smarrimento dei bovini” che era presentata dai responsabili dell’Azienda solo successivamente e, pertanto, da ritenersi falsa.
L’omissione di atti di ufficio: precisazioni introduttive
Come noto l’art. 328 c.p. predispone due fattispecie, entrambe delittuose, punibili per dolo, e precisamente
[1]Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che indebitamente rifiuta un atto del suo ufficio che, per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o di igiene e sanità, deve essere compiuto senza ritardo, è punito con la reclusione da sei mesi a due anni.
[2]Fuori dei casi previsti dal primo comma, il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che entro trenta giorni dalla richiesta di chi vi abbia interesse non compie l’atto del suo ufficio e non risponde per esporre le ragioni del ritardo, è punito con la reclusione fino ad un anno o con la multa fino a euro 1.032. Tale richiesta deve essere redatta in forma scritta ed il termine di trenta giorni decorre dalla ricezione della richiesta stessa.
La disposizione distingue tra il “rifiuto di atti urgenti” (1° c.) e il delitto di “messa in mora” (2° c.). Trattasi in entrambi i casi di reato proprio, cioè attuabile solo da una determinata cerchia di persone: il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio.
L’art. 357 cp, come novellato da l. 7 febbraio 1992, n. 181, stabilisce che “[I] agli effetti della legge penale, sono pubblici ufficiali coloro i quali esercitano una pubblica funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa. [II]. Agli stessi effetti è pubblica la funzione amministrativa disciplinata da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi e caratterizzata dalla formazione e dalla manifestazione della volontà della pubblica amministrazione o dal suo svolgersi per mezzo di poteri autoritativio certificativi”.
La nozione della persona incaricata di un pubblico servizio è invece data dall’art. 358 cp nei seguenti termini: [I]. Agli effetti della legge penale, sono incaricati di un pubblico servizio coloro i quali, a qualunque titolo, prestano un pubblico servizio. [II]. Per pubblico servizio deve intendersi un’attività disciplinata nelle stesse forme della pubblica funzione, ma caratterizzata dalla mancanza dei poteri tipici di questa ultima, e con esclusione dello svolgimento di semplici mansioni di ordine e della prestazione di opera meramente materiale”.
La vigente formulazione dell’art. 357 cp è frutto della novella operata dall’art. 4 l. 7 febbraio 1992, n. 181 con il quale si è stabilito che è pubblica la funzione amministrativa disciplinata da norme di diritto pubblico e caratterizzata dalla formazione e dalla manifestazione della volontà della pubblica amministrazione, ovvero “dal suo svolgersi per mezzo di poteri autoritativi o certificativi”. Pertanto, perché si abbia esercizio di pubblica funzione,non è richiesta la concorrente presenza di poteri autoritativi e certificativi. Così, ad esempio, si è chiarito che il medico convenzionato con il servizio sanitario, svolgendo un’attività amministrativa disciplinata da norme di diritto pubblico ed esercitando peculiari poteri di certificazione in relazione alle prestazioni che devono essere offerte ai cittadini nell’ambito della pubblica assistenza sanitaria, va ritenuto pubblico ufficiale (Cassazione penale, sez. V, 08/04/1992).
Nell’ambito dei soggetti che svolgono pubbliche funzioni si può quindi distinguere tra la qualifica di pubblico ufficiale che è riservata a coloro che formano o concorrano a formare la volontà della p.a.oche svolgono tale attività per mezzo di poteri autoritativi o certificativi, mentre quella di incaricato di pubblico servizio è assegnata dalla legge in via residuale a coloro che non svolgono pubbliche funzioni ma che non curino neppure mansioni di ordine o non prestino opera semplicemente materiale (cfr. Cassazione penale, sez.VI, 21/02/2003, n. 11417).
Ciò chiarito, la condotta vietata dall’art. 328, 1°co., consiste nel fatto del pubblico ufficiale che rifiuti indebitamente «un atto del suo ufficio che, per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o di igiene e sanità, deve essere compiuto senza ritardo».
Secondo un costante insegnamento della Corte di cassazione, «La fattispecie del rifiuto da parte del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio di compiere un atto di ufficio è integrata quando vi sia stata una richiesta o comunque una qualche sollecitazione esterna, oppure una urgenza sostanziale impositiva dell’atto, resa evidente dai fatti oggettivi posti all’attenzione del soggetto obbligato ad intervenire» ( Cass. Pen., Sez.VI, 11.5.2000).
La decisione di primo grado e la diversa interpretazione in sede di appello
In primo grado, il Giudice aveva ritenuto che, in ossequio alla consolidata “interpretazione sostanzialistica ed amplia del concetto di rifiuto”, fosse integrata nel caso di specie l’inerzia punita dall’art. 328, 1° co., cp in quanto l’omessa registrazione dello smarrimento dei capi e la mancata denunzia alla Autorità Giudiziaria rientravano, ad avviso del giudice, nelle ragioni di “igiene e sanità” e, inoltre, erano assistite dal carattere di urgenza: il giudice di prime cure, infatti aveva ritenuto “sicuramente collegata” la fattispecie concreta “alle esigenze igienico-sanitarie richiamate dalla norma incriminatrice, in quanto le minuziose disposizioni stabilite dal legislatore in tema di anagrafe animale, di smaltimento delle carcasse e di macellazione non possono che essere funzionali, soprattutto, ad evitare il rischio di diffusione di malattie infettive con pericolo per l’uomo, per cui il constatato e non giustificato ammanco di capi di bestiame anagrafati presso un’azienda genera sospetto, potendo detti animali essere stati ceduti in assenza di regolare documentazione sanitaria, deceduti per malattia e sotterrati ovvero macellati clandestinamente, imponendo di conseguenza urgenti e doverosi controlli sulla loro sorte”.
La Corte d’Appello di Lecce (App. Lecce Taranto, Sent., 19-07-2013), invece, giunge a una qualificazione diversa disattendendo tale assunto: pur riconoscendo, in linea con l’insegnamento del giudice di legittimità, che ricorre l’indebita inerzia del pubblico ufficiale, come tale penalmente rilevante ex art. 328 co. 1 cp, ogniqualvolta si abbia “un’urgenza sostanziale, impositiva del compimento dell’atto che, “per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o di igiene e sanità”, debba essere compiuto senza ritardo” (così Cass. sez. 6^, sent. 19.11.2008 n. 48376), la Corte salentina dà primaria rilevanza al dato giurisprudenziale per il quale la indifferibilità dell’atto deve risultare “effettiva e reale”, in rapporto al pericolo di conseguenze pregiudizievoli al bene tutelato dalla norma, da valutarsi alla luce delle specificità del caso (cfr. Cass. Sez. 6^, sent. 15.10.2009 n. 46512), a nulla rilevando che poi la condotta omissiva non abbia comportato, di fatto, alcuna conseguenza pregiudizievole (v. Cass. sez 6^. Sent. 27.11.2012 n. 14979). Su questa premessa, la Corte di appello ha quindi ritenuto che la “situazione di pericolo” fosse nel caso giudicato “meramente teorica e niente affatto concreta”.
Ad avviso del Giudicante, infatti, in quanto i controlli veterinari del dicembre 2006 ed aprile 2007 non avevano fatto emergere, sul piano sanitario, alcuna anomalia, posto che, in entrambe le occasioni, l’allevamento sottoposto a verifica risultò immune da tubercolosi, brucellosi e leucosi, ossia dalle patologie all’accertamento della cui eventuale sussistenza la verifica stessa era appunto mirata, costituisce “dato sufficiente a escludere la sussistenza di un pericolo giuridicamente rilevante per la sanzione penale di cui all’art. 328 cp”.
Ugual peso, in punto di fatto, ha però anche giocato il fatto che le valutazioni del primo giudice sulla asserita falsità della (tardiva) denuncia di smarrimento dei capi siano state ritenute dal Giudice d’appello ferme al mero sospetto.
Se ciò non bastasse, la Corte di appello giunge ad affermare che “altro è se l’omesso o (dolosamente) ritardato aggiornamento ha ad oggetto l’inserimento di un dato di concreto allarme -come nel caso valutato dalla Suprema Corte nella già citata sentenza n. 48376/2008, con cui è stata affermata la colpevolezza, ai sensi dell’art. 328 co. 1 c.p., di un custode “che aveva omesso di dare immediata comunicazione al servizio sanitario dell’intervenuto decesso dell’animale”, precedentemente sottoposto a sequestro amministrativo “perché risultato positivo a una sostanza anabolizzante vietata”- altro è se il dato da immettere ha una valenza di tipo meramente precauzionale, come nel caso che ne occupa, rispetto al quale appare eccessivo connotare l’adempimento nei ricordati termini di indifferibilità ed urgenza richiesti dalla contestata norma incriminatrice”.
Rilievi conclusivi
Il carattere di “urgenza” sostanziale esce dalla sentenza decisamente “concretizzato”, esigendosi una valutazione in termini di effettività del pericolo.
Invero, la lettura della sentenza per esteso fa sorgere la legittima considerazione che la riforma della sentenza di primo grado sia stata propiziata da una diversa, e forse più rigorosa, valutazione dei dati di fatto che, agli occhi del secondo giudicante, non sono parsi contraddistinti da quella certezza, anche rispetto alla sussistenza del dolo, necessari per una pronuncia di condanna.
Resta il dato che questa sentenza, con una certa nettezza, afferma che nell’ambito degli obblighi previsti dal D.P.R. 19 ottobre 2000, n. 437 (Regolamento recante modalità per la identificazione e la registrazione dei bovini) non tutte le omissioni degli obblighi previsti nell’ambito della Banca Dati Nazionale Bovina sono idonei a integrare il fatto oggettivo previsto dal delitto di rifiuto di atti di ufficio. A tal riguardo si può osservare che così decidendo la pressione deterrente rispetto alla corretta tenuta delle Banche Dati Sanitarie rischia di uscirne affievolita. Il valore di un sistema informativo predisposto per finalità di sanità pubblica e risk management riposa, in primo luogo, sulla completezza e l’aggiornamento delle informazioni.
Neppure appare pienamente persuasiva l’affermazione secondo cui lo “smarrimento di capi” non avrebbe connessione con le finalità di sanità: come questa affermazione possa dirsi coerente con il rischio di macellazioni clandestine è elemento che la sentenza non contribuisce a sciogliere. Non a caso il dettato dell’art. 10 del D.P.R. n. 437/2000 non distingue modalità temporali tra i diversi obblighi: il servizio veterinario di ciascuna azienda unità sanitaria locale registra nella banca dati di cui al comma 1 le morti, i decessi e le macellazioni degli animali registrati nella propria banca dati (5° co.); il servizio veterinario di ciascuna azienda unità sanitaria locale competente registra, nella banca dati di cui al comma 1, tutte le uscite di animali dagli allevamenti (7° co.).
Una nozione di sanità ridotta alla prova di pericoli concreti potrebbe indebolire la congruenza del sistema di risk management cui la Banca Dati è strutturalmente collegata.
Daniele Pisanello
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