La comunicazione del rischio non è solo una delle fasi del risk analysis che, come prospettato dal Regolamento n. 178/2002, interessa il legislatore in sede di adozione di nuove norme sanitarie; è anche un elemento degli obblighi di sicurezza alimentare che competono all’operatore del settore alimentare (v. art. 19 del Reg. n. 178/2002) e alle autorità competenti (art. 10 e 19 del Reg. n. 178/2002). Entro quali limiti l’Autorità di controllo può intervenire nel dare pubblica notizia di situazioni “a rischio”; quali differenze possono porsi tra una situazione di pericolo concreto e una nella quale il rischio è solo potenziale (utilizzando la terminologia domestica di diritto penale: il pericolo presunto)?
Una sentenza della Corte di giustizia (nella causa C‑636/11) fornisce alcuni chiarimenti sugli ambiti di intervento delle autorità sanitarie nazionali a fronte di situazioni igieniche non adeguate e nelle quali, tuttavia, non è stato individuato un rischio specifico per la salute dei consumatori. Tornano alla mente le vicende legate al rinvenimento sul mercato delle mozzarelle blu o, più in generale, situazioni igieniche compromesse in stabilimenti di produzione per le quali si possa procedere con una notizia di reato per cattivo stato di conservazione.
Come noto il Regolamento Ce n. 178/2002 se da un lato ha imposto sulle spalle (e sul portafoglio) dell’OSA il ruolo di primario responsabile della sicurezza (art. 17.1), dall’altro impone a tutti gli stati membri di organizzare un sistema ufficiale di controllo degli alimenti e delle altre attività adatte alle circostanze, tra cui l’informazione dei cittadini in materia di sicurezza e di rischio degli alimenti. L’articolo 10 del regolamento n. 178/2002, inserito nel capo dei principi generali, prevede espressamente che «nel caso in cui vi siano ragionevoli motivi per sospettare che un alimento o mangime possa comportare un rischio per la salute umana o animale, in funzione della natura, della gravità e dell’entità del rischio le autorità pubbliche adottano provvedimenti opportuni per informare i cittadini della natura del rischio per la salute, identificando nel modo più esauriente l’alimento o mangime o il tipo di alimento o di mangime, il rischio che può comportare e le misure adottate o in procinto di essere adottate per prevenire, contenere o eliminare tale rischio».
Ma andiamo con ordine: prima i fatti, poi le valutazioni della Corte del Lussemburgo.
I fatti
Nei primi giorni del 2006, a seguito di una ispezione veterinaria presso vari stabilimenti del gruppo imprenditoriale facente capo alla società Berger Wild GmbH (in prosieguo: la «società Berger Wild»), che opera nel settore della trasformazione e distribuzione di carne di selvaggina, erano riscontrate condizioni igieniche non adeguate. Proceduto al prelievo di campioni di tali carni, l’Ufficio del Land di Baviera competente per la salute e la sicurezza alimentare (in prosieguo: l’«LGL») evidenziava analiticamente che gli alimenti in questione erano inadatti al consumo umano e, pertanto, «a rischio» secondo il regolamento (CE) n. 178/2002.
Il Ministero bavarese per l’Ambiente, la Salute e la Tutela dei consumatori comunicava alla Società la propria intenzione di informare i cittadini dell’inidoneità al consumo umano degli alimenti per i quali, durante i controlli, erano emerse anomalie. Come previsto dalla legislazione tedesca, la comunicazione non avrebbe avuto luogo se la società avesse provveduto essa stessa a diffonderla in maniera efficace e tempestiva.
Occorre dire che la legislazione tedesca (Codice in materia di alimenti, generi di prima necessità e mangimi, in appresso ) prevede norme specifiche sulla comunicazione del rischio alimentare da parte degli operatori pubblici e privati. Più precisamente la norma in vigore al momento dei fatti (successivamente modificata) era così formulata: «(1) L’autorità competente può informare i cittadini riportando la denominazione dell’alimento o del mangime e dell’impresa di generi alimentari o mangimi con il cui nome o la cui ragione sociale l’alimento o il mangime è stato prodotto o trasformato o immesso sul mercato, nonché, qualora ciò sia più opportuno per sventare un rischio, riportando anche il nome del responsabile dell’immissione sul mercato, in forza dell’articolo 10 del regolamento (CE) n. 178/2002. Un’azione di informazione dei cittadini nelle modalità descritte alla frase precedente può essere intrapresa anche nel caso in cui: (…) 4. un alimento non nocivo alla salute ma inadatto al consumo umano, in particolare perché nauseante, sia o sia stato immesso sul mercato in quantità non irrilevante, o, per le sue caratteristiche, sia stato immesso sul mercato in quantità sì limitata, ma per un periodo di tempo piuttosto lungo; (…) Nei casi di cui ai punti 2-5, l’informazione dei cittadini è ammessa soltanto se sussiste un loro interesse particolare a riceverla e se tale interesse è prevalente rispetto a quello dei soggetti coinvolti. (2) L’informazione dei cittadini da parte delle autorità è ammessa soltanto qualora altre misure altrettanto efficaci, quali l’informazione dei cittadini da parte del produttore degli alimenti o dei mangimi o da parte dell’operatore economico, non vengano affatto, o non vengano tempestivamente, adottate oppure non arrivino ai consumatori. (3) Prima di informare i cittadini, le autorità devono sentire il produttore o il distributore, qualora ciò non comprometta il conseguimento dell’obiettivo perseguito per mezzo della misura in questione. (4) L’informazione dei cittadini deve cessare quando il prodotto non viene più commercializzato o qualora si possa presumere, sulla base dell’esperienza, che il prodotto immesso sul mercato sia già stato consumato. In deroga al disposto della frase precedente, i cittadini possono essere informati qualora vi sia o sia stato un pericolo concreto per la salute e sia opportuno diffondere informazioni sui provvedimenti di tipo medico da adottare. (5) Qualora a posteriori risulti che le informazioni fornite dalle autorità ai cittadini fossero erronee o che i fatti non siano stati riportati correttamente, tale circostanza deve essere divulgata immediatamente, se l’operatore economico interessato ne fa domanda o se lo richiede l’interesse generale. Questa comunicazione deve avvenire nelle stesse modalità in cui è avvenuta l’informazione dei cittadini».
La società, richiesta di procedere sua sponte alla comunicazione, si opponeva considerandola sproporzionata e proponendo la pubblicazione di una propria «comunicazione di allerta» nella quale avrebbe invitato i propri clienti a recarsi presso i loro abituali punti vendita al fine di sostituire i cinque prodotti indicati nell’allerta, i quali potevano presentare alterazioni di tipo sensoriale pur non comportando rischi per la salute. Senza ulteriori indugi il Ministro competente annunciava il ritiro dal commercio di prodotti a base di selvaggina immessi sul mercato dalla società Berger Wild con un comunicato stampa di tal tenore: «[a]nalisi condotte dall’[LGL] hanno rivelato che i campioni di carne prelevati dalle partite indicate di seguito emanavano un odore rancido, mefitico, di muffa o acido. In sei dei nove campioni di carne analizzati era già iniziato il processo di putrefazione. La società Berger [Wild] è tenuta a ritirare la carne appartenente alle partite citate che sia ancora in commercio». Nel medesimo comunicato stampa era altresì indicato che, nel corso di ispezioni condotte presso tre stabilimenti della società Berger Wild, erano state riscontrate condizioni igieniche ripugnanti. Il giorno seguente un nuovo comunicato stampa intitolato «Ritiro dal commercio di carne di selvaggina (Società Berger Wild, Passau) (…) l’azione di ritiro dal commercio si allarga – numerosi prodotti inadatti al consumo» informava che dodici prodotti surgelati trovati in commercio e sei campioni di carne fresca provenienti dalla suddetta società, uno dei quali era addirittura infetto da salmonella, erano già stati classificati come «inadatti al consumo umano». Riguardo ai dodici campioni inadatti al consumo, il Ministro aggiungeva: «Se comportino anche rischi per la salute, lo diranno le analisi microbiologiche in corso presso l’LGL, i cui risultati saranno pronti entro la fine della settimana». A corredo una lista aggiornata dei prodotti ritirati dal commercio. Di lì a poco era diramata una comunicazione di allerta rapida attraverso il Sistema di allerta rapido per gli alimenti ed i mangimi dell’Unione europea.
La società Berger Wild, ritenendo di aver subito danni considerevoli a causa dei comunicati stampa delle autorità del Freistaat Bayern, ha esperito un’azione risarcitoria contro quest’ultimo dinanzi al Landgericht München I (Tribunale di Monaco I), deducendo in particolare che, a norma dell’articolo 10 del regolamento n. 178/2002, l’informazione dei cittadini è ammessa solo in presenza di un pericolo effettivo per la salute, e non quando gli alimenti in commercio sono soltanto inadatti al consumo umano. Di contro, il Freistaat Bayern ha affermato che la suddetta disposizione consente alle autorità nazionali competenti di far scattare un’allerta pubblica anche in assenza di un pericolo concreto per la salute.
L’intervento della CGUE
Il Giudice nazionale a cui la società aveva richiesto di determinare la responsabilità risarcitoria derivante dalla divulgazione dei comunicati stampa anzidetti, ritenendo necessario il pronunciamento della Corte di giustizia sollevava una questione (c.d. pregiudiziale) con la quale, in sostanza, si chiedeva se l’articolo 10 del regolamento n. 178/2002 debba essere interpretato nel senso che esso impedisca una normativa nazionale che consente di informare i cittadini riportando la denominazione dell’alimento nonché dell’impresa sotto la cui denominazione o ragione sociale l’alimento è stato prodotto o trasformato o immesso sul mercato, nel caso in cui l’alimento in questione, pur non essendo dannoso per la salute, sia tuttavia inadatto al consumo umano. La corte per risolvere la questione si riferisce all’obbligo, gravante sugli stati membri di organizzare un sistema ufficiale di controllo, come previsto dall’art. 17.2 del regolamento n. 178/2002. La Corte, quasi accidentalmente precisa che all’interno di questo sistema vi siano anche “altre attività adatte alle circostanze, tra cui l’informazione dei cittadini in materia di sicurezza e di rischio degli alimenti” (par. 33 della sentenza). Su queste basi la Corte non può ignorare il regolamento quadro sui controlli ufficiali (regolamento n. 882/2004), applicabile dal 1° gennaio 2006, che prevede (articolo 7) da un lato, in generale, che il pubblico abbia accesso alle informazioni concernenti le attività di controllo delle autorità competenti e la loro efficacia, e, dall’altro lato, che l’autorità competente adotti le misure necessarie per garantire che i membri del proprio personale siano tenuti a non divulgare le informazioni ottenute nell’espletamento dei loro compiti di controllo ufficiali e per loro natura coperte dal segreto professionale in casi debitamente giustificati.
Relativamente alla portata di alimento «a rischio» la corte richiama, ovviamente, l’articolo 14 del regolamento n. 178/2002, ai sensi del quale un alimento inadatto al consumo umano è (comunque) considerato «a rischio»: secondo la Corte, infatti, «un alimento, nella misura in cui non è accettabile per il consumo umano e risulta, pertanto, inadatto ad esso, (…), in ogni caso, rappresenta una minaccia per gli interessi dei consumatori, la cui tutela è uno degli obiettivi perseguiti dalla legislazione alimentare, come specificato dall’articolo 5 del medesimo regolamento» (par. 35 sentenza Berger). Ne consegue che, quando taluni alimenti, pur non essendo dannosi per la salute, non rispondono alle suddette prescrizioni relative alla sicurezza degli alimenti in quanto sono inadatti al consumo umano, le autorità nazionali possono, ai sensi dell’articolo 17, paragrafo 2, secondo comma, del regolamento n. 178/2002, informarne i consumatori, nel rispetto delle condizioni stabilite all’articolo 7 del regolamento n. 882/2004.
Considerazioni a margine
La sentenza in rassegna statuisce che le condizioni igieniche precarie, non adeguate, danno luogo a un alimento che, per l’articolo 14 del regolamento n. 178/2002, è da considerarsi “a rischio” e dunque, indipendentemente dalla prova di un pericolo concreto, può costituire il presupposto per l’adozione di interventi di gestione del rischio da parte delle autorità competenti.
Il punto debole di questa affermazione sta nella definizione di “inadeguatezza delle condizioni igieniche” ai fini della nozione di “alimento a rischio”. Una operazione nella quale, come ha già chiarito la stessa Corte di Giustizia (sentenza Albrecht), il manuale HACCP gioca, o dovrebbe giocare, un ruolo decisivo.
Dalla decisione non è lecito desumere altro, atteso che i profili di proporzionalità dell’intervento e più in generale la risarcibilità dei danni sono temi spettanti al giudice tedesco, in forza del diritto nazionale.
In Italia, la giurisprudenza, specie amministrativa, che si è interessata dei rapporti tra autorità di controllo e operatore del settore alimentare, ha intensamente impiegato il principio di proporzionalità. Il ricorso a tale principio, unitamente alle regole del procedimento amministrativo (l. n. 241/1990), del resto, è una via obbligata per il sindacato di legittimità dei provvedimenti adottati dalle autorità sanitarie in materia alimentare. Infatti, il legislatore italiano si è guardato bene dall’approfondire il tema dei rapporti, assai delicati, tra il nuovo ruolo del controllo ufficiale e la “primaria responsabilità” dell’operatore privato. È noto che l’attuazione (enforcement) italiana degli obblighi di sicurezza alimentare non si sia spinta oltre la mera predisposizione di sanzioni amministrative per la violazione degli obblighi di cui agli articoli 18 e 19 del regolamento CE n. 178/2002. In diritto italiano, i profili, di competenza dello Stato membro, relativi alla gestione dei poteri pubblici in situazioni di “crisi alimentare” sono sforniti di indici legislativi chiari e pertinenti agli alimenti: condizioni per un intervento attivo dell’autorità di controllo nella comunicazione di un rischio (pensiamo a una allerta RASFF); modalità di dialogo preventivo con l’OSA e garanzie di contraddittorio; diritto di rettifica; responsabilità per danni all’immagine. Temi, specie quest’ultimo, che comincia a trovare applicazioni giurisprudenziali anche in Italia, specialmente nei confronti di organismi di controllo delegati dall’autorità centrale (ministero) alla certificazione, ma di questo profilo a un prossimo contributo.
20 maggio 2015