Di Daniele Pisanello – LEX ALIMENTARIA STUDIO LEGALE, tutti i diritti riservati
È lecito suggerire in etichetta la presenza di un particolare ingrediente, quando invece, in effetti, tale ingrediente non è presente e ciò si possa evincere unicamente dall’elenco degli ingredienti? A questo quesito risponde una recente sentenza della Corte di giustizia (causa C 195/14) che, per certi versi, segna un possibile avanzamento nella consolidata giurisprudenza della Corte in tema di informazione leale ai consumatori.
Il caso e la questione pregiudiziale
Il casus belli riguardava un infuso ai frutti recante la denominazione «Felix avventura lampone-vaniglia» insieme a un insieme di elementi con dimensioni, colori e caratteri tipografici diversi, in particolare immagini di lamponi e di fiori di vaniglia, e le menzioni «infuso ai frutti con aromi naturali» e «infuso ai frutti con aromi naturali – gusto lampone-vaniglia», nonché un sigillo grafico contenente, all’interno di un cerchio dorato, la menzione «solo ingredienti naturali».
Una associazione di consumatori (in prosieguo: il «BVV»)aveva agito contro la società responsabile dell’infuso, la Teekanne GmbH & Co. KG (in prosieguo: la «Teekanne»), ritenendo il carattere ingannevole dell’etichetta.
Questione annosa e complessa, quella di determinare quando una etichetta sia ingannevole e dunque sanzionabile; non a caso, la questione giuridica riceveva dall’Autorità giudiziaria tedesca due opposte decisioni, in primo e in secondo grado.
In primo grado, la società responsabile del prodotto era stata condannata a sospendere la vendita di tale prodotto sul rilievo che la sua presentazione fosse in contrasto con la legge sulla concorrenza sleale, atteso che gli elementi della confezione dell’infuso ai frutti erano tali da indurre in errore il consumatore rispetto alla composizione del prodotto: il primo giudicante, infatti, riteneva che a causa di tali elementi era legittimo attendere la presenza degli evidenziati ingredienti (vaniglia e lampone) o, per lo meno, aromi naturali di vaniglia e di lampone.
In appello, tuttavia, tale decisione veniva annullata in quanto si sosteneva che non vi fosse stato nessun inganno nei confronti del consumatore. Il secondo giudice, infatti, osservava che, conformemente alla direttiva 2000/13, le disposizioni nazionali (il Codice in materia di prodotti alimentari, generi di consumo e mangimi e la Legge sulla concorrenza sleale) avrebbero dovuto essere interpretate con riferimento alle aspettative del consumatore medio. Nel caso di specie, dall’elenco degli ingredienti dell’infuso ai frutti riprodotto sulla sua confezione risulterebbe che gli aromi naturali utilizzati sono al gusto di lampone o di vaniglia. Tale elenco indicherebbe quindi senza ambiguità che gli aromi utilizzati non sono ottenuti a partire da vaniglia e da lampone, ma che ne avrebbero il gusto. Peraltro, stando per lo meno alla giurisprudenza di quella Corte territoriale, l’esistenza di un’informazione esatta e completa risultante dall’elenco degli ingredienti, figurante sulla confezione, sarebbe sufficiente a escludere il rischio che il consumatore sia tratto in inganno.
Contro tale sentenza, il BVV proponeva ricorso al Bundesgerichtshof (Corte federale di giustizia) che, ritenendo rilevante il pronunciamento della Corte europea, inviava alla Corte di Giustizia UE la seguente questione pregiudizale: «[s]e sia consentito che l’etichettatura e la presentazione dei prodotti alimentari nonché la relativa pubblicità suggeriscano, tramite l’aspetto, la descrizione o le illustrazioni, la presenza di un particolare ingrediente, quando invece, in effetti, tale ingrediente non è presente e ciò si evince unicamente dall’elenco degli ingredienti ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, punto 2, della direttiva 2000/13».
La decisione della Corte di giustizia
La Corte di giustizia, ricordato che, stando la corrente ripartizione delle competenze, spetta al giudice nazionale statuire sulla questione se l’etichettatura di taluni prodotti sia tale da indurre in errore l’acquirente o il consumatore, ribadisce, ai fini della decisione, il ruolo della aspettativa presunta del consumatore medio, cioè l’aspettativa che un consumatore medio normalmente informato e ragionevolmente attento e avveduto matura ove posto innanzi a una etichetta o, più generale, una informazione commerciale.
Vale la pena di ricordare che l’aspettativa presunta del consumatore medio è assurta a criterio di riferimento nell’interpretazione e nell’applicazione delle norme di diritto comunitario poste a tutela dei consumatori: d’altronde, posto che, per qualsiasi prodotto, è possibile immaginare almeno un consumatore sprovveduto abbastanza da ingannarsi sulle effettive qualità dello stesso, se il diritto comunitario intendesse proteggere ogni potenziale acquirente, si dovrebbe concludere, assurdamente, che essa vieta la circolazione di qualunque merce. Sin qui, la Corte è nel solco delle precedenti decisioni in cui la conformità legale di talune etichette è stata affermata sulla base della presenza di informazioni sufficienti al consumatore medio di discernere i tranelli del marketing.
La nozione di «consumatore» deve essere ricostruita in modo da rispettare l’equilibro insito nel tra i due valori che l’ordinamento comunitario protegge al massimo livello: da un lato, la libera circolazione delle merci e, dall’altro, la tutela dei consumatori, la cui garanzia può esigere, a volte, la restrizione di quella libertà. Dalla giurisprudenza della Corte si desume che l’applicabilità del criterio del «consumatore medio» è soggetta a taluni limiti. La Corte, infatti, nel ricorrere alla figura media del consumatore ha stabilito che essa non trova applicazione nei casi in cui il prodotto, o il modo in cui questo viene presentato, sono concepiti proprio al fine di suscitare l’interesse di soggetti più deboli.
Poste queste premesse, però, la Corte pur ricordando che i consumatori che decidono l’acquisto di un prodotto in particolare in base alla relativa composizione leggono prima l’elenco degli ingredienti obbligatoriamente menzionati a norma del diritto comunitario, afferma con una certa nettezza che “la circostanza che l’elenco degli ingredienti sia riportato sulla confezione del prodotto di cui trattasi nel procedimento principale non consente da sola di escludere che l’etichettatura di tale prodotto e le relative modalità di realizzazione possano essere tali da indurre in errore l’acquirente, ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 1, lettera a), sub i), della direttiva 2000/13” (par. 38).
In altri termini, il fatto che il consumatore sia posto nella condizione di apprendere le necessarie informazioni al fine, come nel caso de quo, di verificare la veridicità di alcune suggestioni non è sufficiente. La Corte, riconosciuto che l’etichettatura, è composta non solo da informazioni obbligatorie ma anche da menzioni, indicazioni, marchi di fabbrica o di commercio, immagini o simboli riferentisi a un prodotto alimentare e figuranti sull’imballaggio di tale prodotto, ammette che alcuni di questi elementi ben possono in pratica essere mendaci, errati, ambigui, contraddittori o incomprensibili (par. 39). Allorquando ciò si verifica, a detta della Corte l’elenco degli ingredienti, pur essendo esatto ed esaustivo, può essere inadeguato a correggere in maniera sufficiente l’impressione errata o equivoca del consumatore relativa alle caratteristiche di un prodotto alimentare risultante dagli altri elementi che compongono l’etichettatura di tale prodotto.
È di un certo rilievo che la sentenza richiami gli articoli 8 e 16 del Reg. (CE) n. 178/2002: il primo, rubricato «Tutela degli interessi dei consumatori», prevede che «[l]a legislazione alimentare si prefigge di tutelare gli interessi dei consumatori e di costituire una base per consentire ai consumatori di compiere scelte consapevoli in relazione agli alimenti che consumano. Essa mira a prevenire le seguenti pratiche: a) le pratiche fraudolente o ingannevoli; b) l’adulterazione degli alimenti; c) ogni altro tipo di pratica in grado di indurre in errore il consumatore». L’articolo 16 di tale regolamento, posto nella sezione dei requisiti generali di legislazione alimentare, stabilisce che «[f]atte salve disposizioni più specifiche della legislazione alimentare, l’etichettatura, la pubblicità e la presentazione degli alimenti o mangimi, compresi la loro forma, il loro aspetto o confezionamento, i materiali di confezionamento usati, il modo in cui gli alimenti o mangimi sono disposti, il contesto in cui sono esposti e le informazioni rese disponibili su di essi attraverso qualsiasi mezzo, non devono trarre in inganno i consumatori».
Pertanto, spettando al giudice nazionale procedere a un esame complessivo dei diversi elementi che compongono l’etichettatura dell’infuso ai frutti, al fine di stabilire se un consumatore medio, normalmente informato e ragionevolmente attento e avveduto, possa essere indotto in errore quanto alla presenza di componenti di lampone e di fiori di vaniglia o di aromi ottenuti a partire da tali ingredienti, occorrerà, conclude il giudice comunitario, prendere in considerazione, in particolare, i termini e le immagini utilizzati nonché la collocazione, la dimensione, il colore, il carattere tipografico, la lingua, la sintassi e la punteggiatura dei diversi elementi riportati sulla confezione dell’infuso ai frutti.
Brevi conclusioni in prospettiva
Concludendo, si tratta di un precedente che, pur ponendosi nel solco della consolidata giurisprudenza in tema di consumer information, marca un avanzamento nel rapporto tra la conformità ai requisiti regolatori e il rispetto dei requisiti generali di leale informazione. A quest’ultimo riguardo, sembra a chi scrive che siano oramai maturi i tempi perché una delle disposizioni più significative e insidiose del regolamento UE n. 1169/2011 possa entrare nel cono d’ombra delle sensibilità del giudice comunitario e nazionale: l’art. 13(1) a mente del quale le informazioni obbligatorie sugli alimenti “non sono in alcun modo nascoste, oscurate, limitate o separate da altre indicazioni scritte o grafiche o altri elementi suscettibili di interferire”.