Il testo del decreto semplificazioni, approvato dal Senato nella seduta del 29 gennaio, contiene una rilevante riforma dalla disciplina nazionale in tema di indicazione di origine e provenienza dei prodotti alimentari. Le disposizioni, frutto di un emendamento a firma 5 Stelle, intendono modificare il famigerato articolo 4 della legge n. 4/2011, articolo rimasto nei fatti inattuato a causa della mancata adozione dei previsti decreti ministeriali di esecuzione e della sostanziale incompatibilità col diritto alimentare europeo.
La proposta prefigura una strategia in tre passaggi, tutti tesi, per mezzo di obblighi, a spingere il mercato verso una maggiore esplicitazione della provenienza dei prodotti alimentari.
Il primo elemento prevede di assegnare (nuovamente) al Ministero delle politiche agricole (Mipaaft) il compito di emanare un unico decreto, di concerto col MISE e il Ministero della Salute, previo concerto della Conferenza per i rapporti Stato-regioni e le organizzazioni maggiormente rappresentative, col quale individuare le categorie di alimenti per le quali si potrà rendere obbligatoria la indicazione della provenienza dell’alimento. Diversamente dal passato, con questa disposizione (nuovo comma 3 e 3-bis) ci si muove in modo compatibile coi margini previsti dal quadro europeo, prevedendo che il Mipaaft, in collaborazione con ISMEA, conduca studi volti a determinare per quali categorie merceologiche può ritenersi comprovato o comprovabile quel nesso tra qualità e provenienza, richiesto dal diritto alimentare europeo (Reg. 1169/11, art. 39).
Il secondo asse della proposta del Senato (nuovo comma 3-ter) vuole rendere obbligatoria l’indicazione del luogo di provenienza tutte le volte in cui in etichetta è presente un riferimento a luoghi o zone geografiche. Per queste ipotesi, in realtà, esiste già un regolamento della Commissione (n. 775/2018, di cui si è già trattato su questo sito, qui), applicabile dal 1° aprile 2020, che disciplina gli obblighi di informazione sull’origine dell’ingrediente primario (e non dell’alimento), in attuazione del regolamento quadro (Reg. 1169/11, art. 26.3). Si creerebbe così un nuovo obbligo informativo sulla provenienza dell’alimento, ulteriore a quello europeo sulla provenienza dell’ingrediente primario, per di più di natura trasversale, cioè del tutto svincolato da singole classi merceologiche per le quali sia comprovato o comprovabile il nesso qualità-provenienza, che è – come già ricordato – la condizione basilare per l’introduzione di normativa nazionale derogatoria rispetto a quella europea in materia di informazione sugli alimenti. Per di più non si capisce perché rendere obbligatoria solo l’indicazione del luogo di provenienza e non anche del paese di origine come, invece, previsto dalla norma europea (art. 26.2(a), Reg. n. 1169/11) cui la disposizione nazionale dichiara espressamente di voler dare esecuzione.
Il terzo punto della proposta (nuovo comma 3-ter, seconda parte) vorrebbe stabilire per legge la ingannevolezza di tutte le etichette sulle quali vi sia difformità fra il “paese di origine o il luogo di provenienza reale” dell’alimento e quello evocato per mezzo di immagini o altre informazioni ai sensi del Reg. 775/18 e ciò, si badi, anche quanto l’etichetta sia conforme alle disposizioni di quest’ultimo. La conseguenza, invero paradossale, sarebbe che una etichetta, conforme ai regolamenti europei, anzi, redatta seguendo gli obblighi di legge del Reg. 775/18, potrebbe essere comunque sanzionata da una norma nazionale, sul rilievo della difformità rispetto alla provenienza reale.
Invero, il concetto di luogo di provenienza, intorno al quale tutta la proposta ruota, trova la sua definizione giuridica armonizzata nel Reg. 1169/11: «qualunque luogo indicato come quello da cui proviene l’alimento» che non sia né il «paese d’origine» ai sensi del Codice doganale (luogo dell’ultima trasformazione sostanziale economicamente giustificata) né – si badi – il nome, la ragione sociale o l’indirizzo dell’operatore del settore alimentare apposto sull’etichetta.
Si tratta di una definizione che è lungi dall’essere soddisfacente e che lo è ancor meno laddove la si utilizzi all’interno di disposizioni sanzionatorie, costruite sul concetto della provenienza reale che, per i suoi contorni imprecisabili, cozza col principio di tassatività scolpito nel nostro ordinamento.
È manifesto l’intento del legislatore: porre argini alle tecniche di comunicazione sugli alimenti che, sfruttando gli indubbi ambiti di libertà lasciati dalla normativa vigente, condizionerebbero in modo abnorme il comportamento del consumatore. Non è detto però che la via dell’obbligo di legge, per di più in queste forme, sia lo strumento corretto e idoneo a superare il problema, e sempre ammesso che un problema vi sia, il che è opinione non unanime all’interno della stessa classe degli operatori della filiera agroalimentare e degli studiosi di diritto alimentare.
L’analisi tecnica del provvedimento licenziato dal Senato denuncia alcune criticità che, se non corrette, contribuiranno a rendere ancor meno chiaro il quadro normativo sull’origine degli alimenti, amplificando ancor di più quello scollamento tra mondo produttivo, che necessita di norme chiare, e le stanze dei decisori. Vi è da confidare che nel passaggio alla Camera possano affermarsi gli opportuni correttivi per non vanificare i pur legittimi propositi del legislatore nazionale.