29
Feb2020

PASTA-ITALIAN SOUNDING: LE BIZZARRIE DEL MALINTESO MADE IN ITALY

Come noto I(per gli abbonati vedi numero di Gennaio di Food Law Alert) pressoché a tutti gli operatori delle filiere alimentari, con una discussa (e discutibile) decisione l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) ha applicato (Provv. n. 28059/2019) la sanzione amministrativa di un milione di euro a un operatore della distribuzione organizzata per la pratica commerciale scorretta consistente nella “presentazione di confezioni di pasta a marchio XXXX e XXXXX, in quanto caratterizzate da una enfatizzazione dei vanti di italianità di un prodotto notoria mente italiano e dalla non immediata percepibilità delle informazioni sull’origine del grano duro (a causa del loro posizionamento al di fuori del campo visivo principale)”.

Italian sounding?

Breve premessa. il richiamato procedimento per pratica commerciale scorretta ha assunto, nel bollettino dell’Autorità, l’altisonante titolo “PASTA LIDL-ITALIAN SOUNDING”. Orbene non c’è chi non veda (ove abbia onestà intellettuale e cognizione di causa, tra queste anche la stimata collega Valeria Pullini, in un recente post) che il riferimento all’Italian sounding sia del tutto errato, considerato che la pasta oggetto delle attenzioni dell’Autorità era perfettamente italiana in quanto realizzate in Italia e, dunque, del tutto insussistente quel fenomeno dell’aggancio parassitario al valore dell’italianità che, se le parole hanno ancora un senso, dovrebbe connotare l’espressione (abusata e, secondo lo scrivente, evanescente) dietro la quale spesso di nasconde l’incapacità di aggredire più efficacemente i mercati e i concorrenti sleali.

Fine della premessa solo per sottolineare che il segnalato qui pro quo getta una luce sulla impostazione pre-definita dalla quale muove tutta l’istruttoria dell’AGCM e che giunge a risultati che, come si vedrà subito, sono obbiettivamente discutibili sul piano del diritto.

Selezionate considerazioni (senza pretesa di esaustività)

Nell’insieme (e dunque tralasciando in questa sede gli aspetti specifici delle due linee di prodotto dedotte in contestazione), i rilievi mossi dall’AGCM sono stati due: da un lato, le modalità di fornitura delle informazioni e, dall’altro, la pretesa di ritenere dovuta la informazione del grano quale “ingrediente primario” della pasta.

Circa il primo profilo, ad avviso dell’Autorità competente per la repressione delle pratiche commerciali scorrette, nel caso di specie le complessive modalità di presentazione sarebbero state “idonee a ingenerare nei consumatori al primo contatto l’equivoco che l’intera filiera produttiva della pasta, a partire dalla materia prima, sia italiana mentre tale qualificazione pertiene esclusivamente alla localizzazione dei processi di trasformazione e delle competenze produttive”.

Il passaggio ora richiamato riecheggia l’argomento della “contestualità delle informazioni” necessarie o opportune per consentire al consumatore medio di giungere a una decodifica non errata del messaggio insito nella indicazione commerciale. Si tratta di un argomento ben noto nella casistica dell’AGCM che, avvallato anche recentemente dal Consiglio di Stato (sent. 1167/2019), ha assunto altresì  risalto in un recente arresto della Corte di Giustizia in una controversia relativa alla fornitura di alcuni health claims).

Il secondo profilo attiene non alle modalità di fornitura (quomodo) ma alla stessa scelta di cosa comunicare (quid). In sintesi, l’AGCM, partendo da ciò che, sul piano demoscopico, può ricondursi alle  (presumibili) “percezioni dei consumatori italiani circa l’origine del prodotto e della materia prima”, trae sostegno nel ritenere che “[n]el caso specifico, l’ingrediente generalmente associato alla denominazione della pasta nella percezione dei consumatori è il grano duro, che rappresenta la componente fondamentale del prodotto pasta”.

Se ciò non bastasse (se cioè non fosse sufficiente fingere di dimenticare che la denominazione di pasta è pasta di semola di grano duro) l’assioma per cui l’ingrediente primario è e deve essere solo il grano duro è elevato a regola giuridica, in barba ai diversi indici legislativi presenti in diverse fonti di legislazione alimentare.

Queste ultime sono liquidate con un tratto di penna: “al di là della mera osservanza delle norme sull’etichettatura contenute nel Regolamento UE n. 1169/2011, a fronte della scelta del professionista di esaltare l’italianità del prodotto si rende necessario controbilanciare tale enfasi con una più evidente e contestuale indicazione dell’origine del grano duro in etichetta. Ciò al fine di evitare che il consumatore sia immediatamente e più incisivamente colpito dai claim di italianità e sia dunque di italianità e sia dunque portato a credere che la pasta di semola di grano duro sia prodotta con grano duro esclusivamente italiano”.

Per giustificare una simile affermazione sul piano giuridico (che ha regole precise e ben diverse da quelle giornalistiche o della comunicazione lobbistica), purtroppo, non può essere sufficiente richiamare l’autonomia della disciplina delle pratiche commerciali scorrette rispetto alla normativa di settore (Reg. n. 1169/2011 e connesso Reg. 2018/775), il cui rispetto (compliance), come insegna la giustizia non solo amministrativa, vale a conformare l’onere di diligenza dell’operatore.

Vogliamo davvero addentrarci in un simile cortocircuito? È doveroso chiederselo, perché il costo di un approccio quale quello propugnato dall’AGCM è la perdita completa di predittività delle regole di mercato, primo elemento per lo sviluppo dei commerci. E non  ci si soffermerà sulla questione “filosofale” di cosa sia “Made in Italy”, di cosa converrebbe come sistema paese sostenere.

Un giudice a Roma

Se questo è il quadro, è tutto da vedere se questa decisione potrà superare il sindacato di legittimità che, con ogni probabilità l’operatore sanzionato, proporrà al TAR Lazio.

In tale prospettiva potrà essere molto utile la recente giurisprudenza che, in sede di opposizione all’applicazione di sanzioni amministrative da parte dell’AGCM per pratica commerciale scorretta, ha sostenuto e applicato un sindacato pieno e particolarmente penetrante e può estendersi sino al controllo dell’analisi (economica o di altro tipo) compiuta dall’Autorità(ex pluribus Consiglio di Stato, IV, sent. 1167/0219).

Daniele Pisanello

 

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