Dal 1° aprile 2020 sarà applicabile il Regolamento (UE) di esecuzione della Commissione (UE) n. 2018/775 che prevede le modalità applicative di fornitura delle informazioni sull’ingrediente primario secondo quanto stabilito dall’art. 26(3) del Regolamento n. 1169/2011, relativo alla fornitura di informazioni sugli alimenti (RFI). Quest’ultima disposizione del regolamento quadro prevede che quando è fatto riferimento al paese di origine o al luogo di provenienza «attraverso qualunque mezzo, come diciture, illustrazioni, simboli o termini che si riferiscono a luoghi o zone geografiche», e questo richiamo territoriale non coincide con quello dell’ingrediente primario dell’alimento, si deve fornire una informazione specifica sull’origine di quest’ultimo: la confezione di biscotti con la bandiera tricolore e la dizione “made in Italy”, rispetto ai quali l’ingrediente primario (presumibilmente la farina di grano tenero) non sia italiano, dovrebbe contemplare l’ulteriore informazione specifica sull’origine della farina.
Più facile a dirsi che a farsi, è decisamente il caso di affermare: si tratta infatti di una disciplina mal congegnata e di difficile applicazione, che costringerà gli operatori a ripensare non solo le etichette ma, come si vedrà, la stessa impostazione di talune strategie di comunicazione del prodotto, specie quelle che dell’ancoraggio territoriale, più o meno pregnante, fanno una leva di marketing.
Quando sussiste l’obbligo informativo e cosa si deve comunicare
Un primo elemento di non banale complessità è determinare quando realmente sussiste l’obbligo informativo: due condizioni sono necessarie.
La prima è che sia indicato il paese di origine (PO) o il luogo di provenienza (LP),[1] sia su base strettamente volontaria o in attuazione dell’art. 26.2(a), Reg. 1169/2011. Come vedremo il regolamento della Commissione non si limita alle etichette, anche se queste costituiscono il principale oggetto di attenzione.
L’indicazione del PO o del LP, rilevante ai fini della disciplina in parola, può essere fornita mediante «qualunque mezzo, come diciture, illustrazioni, simboli o termini che si riferiscono a luoghi o zone geografiche»: l’immagine dell’Italia, il tricolore, il profilo di una regione, l’immagine di un monumento, a patto che sia decodificabile come indicazione di un luogo di produzione, è sufficiente a integrare la prima condizione. Proprio perché dirimente è che il consumatore decodifichi il messaggio come “indicazione di provenienza”, sono escluse le denominazioni usuali e generiche, le quali pur indicando letteralmente l’origine, non sono comunemente interpretati come una indicazione di origine/provenienza: spaghetti alla bolognese; insalata russa; gulash ungherese; salsiccia Frankfurter; etc. La disciplina contempla poi altre esclusioni che che andrebbero valutate molto attentamente(denominazioni usuali, prodotto DOP-IGP, marchi registrati e altri loghi posti per ragioni sanitarie).
Sicuramente, i termini «made in» oppure «prodotto in» rientrano nel catalogo delle ipotesi di riferimenti geografici qui analizzati. Le diciture «imballato in», «prodotto / fabbricato da» seguito dall’indirizzo del produttore possono essere considerati come indicanti il paese di origine o il luogo di provenienza di un alimento anche se la posizione della Commissione e degli Stati membri non è ancora uniforme.
Si comprende già da queste prime note la delicatezza di questa operazione, specie quando si tratta di etichette multilingua, atteso che in tal caso il consumatore medio cambia nel passaggio da uno Stato all’altro.
La seconda condizione è che l’ingrediente primario (IP) dell’alimento abbia un PO o un luogo di provenienza LP diverso dal PO/LP dichiarato sull’alimento. Tornando al caso del biscotto made in Italy: se la farina di grano, ammesso per ipotesi che ne sia l’IP, avesse origine italiana non vi sarebbe ragione di applicare la disciplina in parola; se la farina fosse francese, invece, entrambe le condizioni sarebbero presenti e dunque si dovrebbe applicare il regolamento n. 2018/775.
Occorre quindi richiamare la definizione di «ingrediente primario», fornita dal regolamento n. 1169/2011: «l’ingrediente o gli ingredienti di un alimento che rappresentano più del 50 % di tale alimento o che sono associati abitualmente alla denominazione di tale alimento dal consumatore e per i quali nella maggior parte dei casi è richiesta un’indicazione quantitativa». I criteri per individuare l’IP (o gli IP) possono essere due: il criterio quantitativo oppure il criterio qualitativo.
Ove applicabile l’obbligo informativo, il regolamento consente due opzioni: la prima, relativamente più facile, consiste nel fornire, in corrispondenza del richiamo territoriale dell’alimento, la dicitura del seguente tenore: «(nome dell’ingrediente primario) non proviene/non provengono da (paese d’origine o luogo di provenienza dell’alimento)» o una formulazione che possa avere lo stesso significato per il consumatore.
La seconda opzione prevede che sia fornita una indicazione specifica di un determinato livello geografico secondo la griglia dal regolamento di esecuzione e precisamente: «UE», «non UE» o «UE e non UE»; o una regione/altra zona geografica all’interno di diversi Stati membri (SM) o di paesi terzi (PT), purché definita dal diritto internazionale pubblico o ben chiara per il consumatore medio normalmente informato; o uno o più Stati membri o paesi terzi; o una regione o qualsiasi altra zona geografica all’interno di uno SM o di un PT, ben chiara per il consumatore medio normalmente informato; o il paese d’origine o il luogo di provenienza, conformemente alle specifiche disposizioni dell’Unione applicabili agli ingredienti primari in quanto tali; la zona di pesca FAO/mare/corpo idrico di acqua dolce se definiti dal diritto internazionale o ben chiari per il consumatore medio normalmente informato.
Quanto ai tempi di adeguamento: gli alimenti immessi sul mercato o etichettati prima della data di applicazione del regolamento n. 2018/775 possono essere commercializzati sino ad esaurimento delle scorte. Da questa data, inoltre, i Decreti interministeriali nazionali sull’origine del latte e derivati, grano e riso, pomodoro perderanno, sicuramente, efficacia come chiarito anche dal Ministero competente (MiPAAF). È forse questa, l’unica buona notizia in un panorama che sta togliendo la serenità a molti addetti ai lavori.
Contare gli alberi, riconoscere il bosco
Dalla succinta disamina della disciplina si comprende agevolmente che essa impatta profondamente sulle modalità di realizzazione delle etichette e, più in generale, sulla comunicazione del prodotto. Essa, infatti, non sembra limitata alla sola etichettatura dei prodotti alimentari preimballati. Basti dire che nel testo del regolamento n. 2018/775 non compare mai la parola etichette: ne deriva la conseguenza – ove ve ne fosse bisogno – che questa disciplina è potenzialmente idonea ad applicarsi a tutte le ipotesi di comunicazione sul prodotto alimentare.
Dalle prime esperienze pare potersi dire che, al di là di una certa approssimazione redazionale e ineludibili complessità applicative, la difficoltà maggiore riposa tuttavia nell’esercizio della responsabilità dell’impresa alimentare responsabile delle informazioni (art. 8.1/2, RFI).
La lettura e comprensione delle linee guida, in fase di elaborazione al momento in cui questo contributo è stato redatto, conferma che non esistono soluzioni prêt-à-porter buone per tutte le soluzioni e ciò – a ben vedere – per la considerazione che spetta l’OSARI valutare e valutare con adeguatezza secondo un approccio che tenga conto dei criteri fondamentali del diritto alimentare. È da un insieme di elementi (composizione e natura del prodotto; interesse presumibile del consumatore rispetto all’origine di un ingrediente; comunicazione del prodotto) che si può trarre argomento per definire decisioni sostenibili rispetto alle scelte di conformità. Da questo punto di vista, l’elasticità di una serie di requisiti previsti dal Regolamento n. 2018/775 impone una valutazione approfondita e multidisciplinare che includa argomenti tecnici, demandati a tecnici competenti, e giuridici, demandati a consulenti legali o avvocati competenti: nessuna delle due categorie ora richiamate, infatti, può dirsi in grado, da sola, di contare gli alberi e riconoscere il bosco.
Detto in altri termini, questa disciplina, per quanto pasticciata e opinabile nella sua stessa ratio, chiama in gioco e rimette al centro la posizione di garanzia dell’operatore del settore alimentare (art. 17.1, Reg. n. 178/2002 in combinato disposto con artt. 7 e 8 del Reg. n. 1169/2011) e le sue responsabilità. Orbene, la responsabilità è sempre esercizio di una libertà di scelta, più o meno delimitata. E non vi è pena se non si versa per lo meno in colpa, il controcanto della valutazione approfondita richiesta da questo nuovo regolamento di legislazione alimentare europea.
[1] Per “luogo di origine” si intende quello definito in base alla disciplina doganale la nozione doganale. Il nome, la ragione sociale o l’indirizzo dell’operatore del settore alimentare apposto sull’etichetta non costituisce un’indicazione del paese di origine. Tuttavia, in date circostanze, può tuttavia assumere tale valenza. Per «luogo di provenienza», ai fini del regolamento n. 1160/2011, si deve intendere “qualunque luogo indicato come quello da cui proviene l’alimento, ma che non è il «paese d’origine» come individuato ai sensi degli articoli da 23 a 26 del regolamento (CEE) n. 2913/92”: es. una regione o un paese. Si riconosce espressamente che il nome, la ragione sociale o l’indirizzo dell’operatore del settore alimentare apposto sull’etichetta non costituisce un’indicazione del paese di origine o del luogo di provenienza del prodotto alimentare ai sensi del presente regolamento”.