20
Gen2022

Prodotti della canapa a uso alimentare

L’uso della canapa (hemp) e dei suoi derivati nelle filiere alimentari è sempre più diffuso:  oli, integratori, prodotti da forno, caramelle ed altri. Sul piano nutrizionale diversi studi hanno raccolto evidenze per cui i semi, privi di THC, contengono sostanze con azione antiossidante e acidi grassi omega-3.

Il piano normativo e regolatorio è lungi dal dirsi pacifico e lineare. In ciò proliferano azioni a limite della legalità, utilizzando il grande mare della vendita on-line che diluisce le capacità di vigilanza e repressione degli illeciti.

Prodotti della canapa ad uso alimentare: primo inquadramento

Da un lato, tra gli stupefacenti espressamente individuati dalla Convenzione unica sugli stupefacenti vi è la cannabis, la resina di cannabis, gli estratti e le tinture di cannabis, stante soprattutto la presenza di tetradidrocannabinolo (in prosieguo: «THC»).

Dall’altro, la UE contempla la cannabis sativa tra i prodotti agricoli cui si applica la politica agricola comune e ne incentiva «solo se il tenore di tetraidrocannabinolo delle varietà coltivate non supera lo 0,2%». Questo stesso limite deve essere rispettato per l’importazione di prodotti della canapa.

L’uso dei semi di cannabis sativa è utilizzato in mangimistica, dopo che l’Autorità europea per la sicurezza alimentare (nel 2011) ne ha valutato l’impiego; in ambito alimentare EFSA nel 2015 ha pubblicato una opinion sui rischi connessi alla presenta di tetraidrocannabinolo nel latte e in altri alimenti di origine animale nel quale sostanzialmente escludeva che l’esposizione a Δ9-THC attraverso il consumo di latte e prodotti lattiero-caseari, risultante dall’uso di materie prime per mangimi derivati ​​dai semi di canapa alle concentrazioni riportate, presentasse un problema per la salute delle persone, e fissava una dose di riferimento acuta (ARfD) di 1 μg/kg di peso corporeo (p.c.) per Δ9-THC. Più recentemente, sulla scorta della Raccomandazione 2016/2115 della Commissione Europea sul monitoraggio della presenza di Δ9-THC negli alimenti, EFSA nel 2020 ha valutato l’esposizione umana acuta al Δ9-THC: dai dati raccolti, l’ARfD (1 μg/kg di peso corporeo) è stato superato negli adulti consumatori frequenti di prodotti della canapa sebbene il documento stesso denunci in più punti la limitatezza dei dati a disposizione.

In Italia l’uso alimentare dei semi di canapa e derivati era stato in qualche modo configurato come compatibile con la legislazione alimentare da parte di una coraggiosa nota circolare della Direzione Generale della Sicurezza degli alimenti e della nutrizione del 2009 che, riconosciuta la «assenza genetica di THC nei semi», a fronte del quadro giuridico in tema di stupefacenti, ne qualificava la utilizzabilità, richiamando però l’attenzione degli operatori a una scrupolosa applicazione delle procedure di autocontrollo al fine di tenere sotto stretto controllo la sicurezza alimentare e il rischio di contaminazione accidentale di THC nei semi e ribadendo il divieto di «propaganda pubblicitaria» di sostanze e preparazioni comprese nelle tabelle di cui al Testo unico Stupefacenti (Decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309).

Dal punto di vista dell’ordinamento giuridico domestico, infatti, la nozione di stupefacente ha natura prettamente formale, nel senso che vi rientrano tutte e soltanto le sostanze specificamente indicate negli elenchi o tabelle appositamente predisposte e allegate al testo unico degli stupefacenti. Tali tabelle rispecchiano le convenzioni e negli accordi internazionali e sono aggiornate tempestivamente a cura del Ministero della salute.

Ciò posto, tuttavia, si è affermato un primo orientamento giurisprudenziale che, in forza del principio costituzionale di offensività, ha sostenuto che affinché una sostanza possa ritenersi stupefacente non è sufficiente la sua semplice corrispondenza al “tipo” descritto nelle tabelle ministeriali, quanto piuttosto la concreta idoneità del principio attivo in essa contenuto a produrre effetto drogante. Secondo questo orientamento, seguito anche dalla Corte di cassazione, ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 73 T.U. Stup. è necessario dimostrare, con assoluta certezza, che il principio attivo contenuto nella dose destinata allo spaccio, o comunque oggetto di cessione, sia di entità tale da poter produrre in concreto un effetto drogante. A questa visione sostanziale, sia pur con argomenti diversi, è ricorsa la Corte di giustizia (Causa C-663/18) nel 2020 nell’interpretare i trattati internazionali in materia di sostanze stupefacenti in un caso relativo alla qualificazione del cannabinolo, estratto della Cannabis, su cui si tornerò in chiusura di questa sezione. A questo orientamento, secondo cui nel caso di estratti edibili da esemplari botanici, pur compresi nelle tabelle del T.U. stupefacenti (come alcune varietà di canapa) ma privi di qualsivoglia efficacia farmacologica e perciò inidonea a produrre l’effetto drogante a causa della percentuale insufficiente di principio attivo (ad esempio, Cass. pen. Sez. IV, 12 gennaio 2000, n. 3584), si contrapponeva un diverso orientamento, a mente che non riconosceva rilevanza scriminante alla “soglia drogante”, stante la natura legale della nozione di sostanza stupefacente (Cass. Sez. un., 24 giugno 1998, n. 9973, Kremi).

In contrasto giurisprudenziale sembra essere in qualche modo ricomposto a seguito della sentenza della  Corte di cassazione, sez. un. pen., 30 maggio 2019, n. 30475, c.d. Castignani che, relativa alla responsabilità penale per commercializzazione di cannabis c.d. light, ha stabilito che  integrano il reato di cui all’art. 73, commi 1 e 4, d.P.R. n. 309/1990, le condotte di cessione, di vendita e, in genere, la commercializzazione al pubblico, a qualsiasi titolo, dei prodotti derivati dalla coltivazione della cannabis sativa L, «salvo che tali prodotti siano in concreto privi di ogni efficacia drogante».

Questa sentenza, peraltro, è rilevante in quanto in essa si fornisce un tentativo di coordinamento tra il Testo unico in materia di stupefacenti e la legge n. 242 del 2016, Disposizioni per la promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa, con la quale il settore della canapicoltura ha ripreso abbrivio in Italia.

La legge 242/2016 sulla promozione e coltivazione delle filiere agroindustriali della canapa

La legge 242/2016 ha rappresentato un punto di svolta significativo. Sul piano giuridico occorre pero sottolineare che essa riguarda esclusivamente le coltivazioni di canapa delle varietà ammesse iscritte nel Catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole, di cui all’articolo 17 della direttiva 2002/53/CE. Il Catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole, nella Trentacinquesima edizione, contempla tra le piante oleaginose e da fibra diverse varietà di Cannabis sativa L. Canapa con contenuto di THC molto basso, inferiore allo 0,2%.

Al fine di consentire la coltivazione di canapa sativa, nelle varietà ammesse da catalogo comune, senza compromettere l’impianto della disciplina in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope (D.P.R. 309/1990), la legge 242/2016 elenca (art. 2, co. 2) tassativamente le ipotesi di coltivazioni ammesse senza necessità di autorizzazione ai sensi del T.U. Stup., e precisamente le seguenti:

a) coltivazione e alla trasformazione;

b) incentivazione dell’impiego e del consumo finale di semilavorati di canapa provenienti da filiere prioritariamente locali;

c) sviluppo di filiere territoriali integrate che valorizzino i risultati della ricerca e perseguano l’integrazione locale e la reale sostenibilità economica e ambientale;

d) produzione di alimenti, cosmetici, materie prime biodegradabili e semilavorati innovativi per le industrie di diversi settori;

e) realizzazione di opere di bioingegneria, bonifica dei terreni, attività didattiche e di ricerca.

Il perno della disciplina è il rapporto con il T.U. stupefacenti rispetto al quale viene in considerazione l’articolo 4 della legge. Questo articolo disciplina il regime di responsabilità dell’agricoltore, tratteggiando tre scenari:

  • nel primo, il contenuto complessivo di THC della coltivazione è inferiore allo 0,2 % e in tal caso la condotta è del tutto lecita e consentita, senza necessità di autorizzazione;
  • nella seconda ipotesi il contenuto di THC, accertato con le metodiche previste, è compreso tra lo 0,2 e lo 0,6 %; in tal caso il soggetto agricoltore/coltivatore non va incontro a responsabilità, né penali né civili purché abbia rispettato «le prescrizioni di cui alla presente legge», a differenza del primo caso;
  • il terzo caso contempla l’eventualità l’agricoltore/coltivatore abbia sì coltivato le varietà di canapa nel rispetto delle prescrizioni della legge n. 242/2016, ma a seguito di un accertamento, risulti che il contenuto di THC nella coltivazione superiore allo 0,6 per cento: in tal caso, ancora una volta, se l’agricoltore/coltivatore ha rispettato le prescrizioni della legge, andrà esente da responsabilità anche se la canapa impianta andrà comunque sequestrata e destinata a distruzione.

Orbene se, alle condizioni fissate dalla legge n. 242/1990, la coltivazione di cannabis sativa delle varietà ammesse è lecita, sul piano logico dovrebbe conseguire che anche i derivati di tale attività agricola dovrebbero avere lo stesso status di legalità. La questione è tuttavia più complessa in quanto deve coordinarsi con la disciplina in tema di stupefacenti. Questo profilo è stato affrontato dalle Sezioni unite, con la decisione Castignani, nella quale si è stabilito che le clausole di esclusione della responsabilità previste dal citato art. 4 l. n. 242 del 2016 riguardano esclusivamente l’agricoltore/coltivatore, che realizza le colture previste dall’art. 1 l. n. 242, per il caso in cui la coltura lecitamente impiantata, in corso di maturazione, presenti percentuali di THC superiori ai valori soglia indicati nel testo legislativo del 2016. Altrimenti detto, la Suprema corte ha escluso che le soglie percentuali di THC indicate nell’articolo 4 della legge possano valere a configurare la liceità della commercializzazione dei prodotti ottenuti dalla coltivazione di cannabis sativa L., ove contenenti percentuali inferiori allo 0,6 ovvero allo 0,2 per cento. Pertanto per le Sezioni unite deve ritenersi che la cessione, la messa in vendita oppure la commercializzazione al pubblico, a qualsiasi titolo, di prodotti (foglie, inflorescenze, olio, resina) – diversi da quelli espressamente consentiti dalla legge n. 242 del 2016 – derivati dalla coltivazione della cannabis sativa L. (seppure caratterizzati da un basso contenuto di THC) integri il tipo legale del reato di cui all’art. 73 D.P.R. n. 309/1990.

Poste queste premesse, si può ora considerare più da vicino che tra gli usi consenti e quindi scriminati dalla legge n. 242/2016 vi può essere l’uso alimentare al quale l’articolo 5 della stessa legge riserva una attenzione specifica rinviando a un decreto del Ministro della salute per la definizione dei livelli massimi di residui di THC ammessi negli alimenti. Anche se tale decreto avrebbe dovuto essere adottato entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, è solo nel 2019 che il Ministero della Salute ha potuto approntare, superando comprensibili difficoltà tecniche e non solo, il Decreto ministeriale 4 novembre 2019, Definizione di livelli massimi di tetraidrocannabinolo (THC) negli alimenti.

Il decreto del 4 novembre 2019 fissa i valori delle concentrazioni massime (limiti massimi) di THC totale ammissibili negli alimenti ai fini del controllo ufficiale, fornendo alcune definizioni specifiche, quali «canapa», «THC» e «alimenti derivati dalla canapa».

Per questi ultimi, al di là della definizione, pur importante nella misura in cui si esclude che le «parti e/o derivati dalle parti della canapa» siano novel foods ai  sensi del reg. (UE) n. 2015/2283, merita di essere segnalato che solo gli alimenti definiti nell’allegato I sono impiegabili ai fini e ai sensi della legge n. 242/2016: semi, farina ottenuta dai semi, olio ottenuto dai semi. Solo queste tre tipologie di alimenti possono essere lavorate e commercializzate in Italia, senza tema di incorrere in accertamenti che possono sfociare in imputazioni penali.

Dal punto di vista di idoneità alimentare, poi, si pone l’ulteriore condizione del rispetto dei limiti massimi di THC totale ammissibile secondo i tenori fissati nell’allegato II: 2 mg/kg per i semi di canapa e la farina derivatane, 5 mg/kg per l’olio ottenuto dai semi di canapa; 2 mg/kg per gli Integratori contenenti alimenti derivati dalla canapa. Il THC è quindi considerato come un contaminante.

L’accertamento di conformità dei predetti limiti spetta al Ministero della salute, al Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali, nonché all’Ispettorato centrale della tutela della qualita’ e della repressione frodi dei prodotti agroalimentari, alle regioni e Province autonome di Trento e di Bolzano e alle aziende sanitarie locali, «nell’ambito delle rispettive competenze».

A tal fine, l’autorità di controllo in sede di campionamento dovrà seguire le regole di base previste dal regolamento (CE) n. 401/2006, mentre relativamente alla metodica analitica vale il rinvio aalla «Raccomandazione (UE) n. 2016/2115 della Commissione del 1° dicembre 2016 sul monitoraggio della presenza di ^9 -tetraidrocannabinolo, dei suoi precursori e di altri derivati della cannabis negli alimenti».

La disciplina del decreto 4 novembre 2019 vale per i prodotti alimentari realizzati in Italia e destinati al mercato italiano. Anche in questo caso la normativa nazionale prevede la clausola di mutuo riconoscimento in forza della quale le merci legalmente commercializzate in un altro Stato membro dell’Unione europea o in Turchia o provenienti da uno Stato EFTA firmatario dell’accordo SEE e in esso legalmente commercializzate sono considerate compatibili con questa misura. Come noto tale clausola non impedisce l’intervento delle autorità competenti ove sia o possa essere pregiudicato un interesse prioritario dell’ordinamento come la salute pubblica. Detto altrimenti, se anche un prodotto alimentare intracomunitario, ad esempio una tisana a base di fiori e piante, tra cui le foglie di cannabis, è stato immesso sul mercato legalmente in un altro Stato membro, la sua commercializzazione in Italia potrebbe dar luogo a un contrasto coi divieti previsti dal T.U. Stupefacenti.

Tra i derivati della canapa vi è il cannabidiolo (CBD), sostanza che non costituisce uno stupefacente, stando alla recente sentenza della Corte di giustizia UE  (19 novembre 2020, causa C 663/18).

Nonostante questo importante pronunciamento, tuttavia l’inquadramento regolatorio di questa sostanza non è ancora pacifico: con una decisione del gennaio 2019, nel catalogo dei nuovi alimenti (vedi pià avanti in questo capitolo) è stata inserita la voce “Cannabinoidi” alla quale è assegnato lo status di novel food. Sebbene il catalogo dei nuovi alimenti non è uno strumento giuridico esso rapprenta la communis opinio degli Stati membri e della Commissione. Nel caso dei cannabinoids si può leggere che, ferma la qualifica come “not novel” della voce Cannabis sativa L., gli estratti di quest’ultima che contengono cannabinoidi sono considerati nuovi alimenti ai sensi del regolamento UE 2283/2015, indipendentemente dalla modalità di estrazione e includendovi quelli ottenuti in via sintetica. A fronte delle non poche richieste di autorizzazione giunte alla Commissione e al supporto scientifico che EFSA sta già fornendo, quest’ultima ha attivato di propria iniziativa, ai sensi dell’art. 28 RGLA, una procedura per l’elaborazione di un parere scientifico in merito alla sicurezza del CBD. Nella valutazione di sicurezza i dati relativi alla identificazione del prodotto e alla sua genotossicità saranno importanti.

Una disciplina a parte e del tutto diversa è quella legata al tema della cannabis terapeutica, cioè di medicinali a base di vegetali, sostanze e preparazioni vegetali, inclusi estratti e tinture, prescritti con ricetta non ripetibile, di cui alla sezione «B» della tabella dei medicinali allegata al Testo Unico sugli stupefacenti, frutto della modifica legislativa ottenuta anche grazie all’impegno civile di diverse associazioni.

 

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